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estremoriente

 

 

DOSSIER

ESTREMORIENTE

 

 

ESTREMORIENTE

 

Jonny Costantino

 

 

Vedendo una lepre dite che è graziosa,

vedendo un leone dite che è terrificante.

Ma ignorate a qual punto si amino

nelle notti tempestose, tra rivoli di sangue.

Mishima Yukio, Madame De Sade (1965)

 

 

La carne è l’arena del sacro. Non del sacro istituzionale. Per quello ci sono le religioni strutturate, codificate. Del sacro in terra, vissuto fino alla feccia. Il sacro inteso quale sbalzo di stato: dal tiepido esistere al vivere ardendo, dal prosaico incedere tra le difficoltà del tirare avanti al lirico involo sopra di esse. Letto del quotidiano straripato dalla piena del sangue. Brace del proibito e del pericolo, del segreto e della vertigine. Del mistero, della rivelazione che non ha parole. Lacerazione della membrana tra fisico e spirituale. Febbre del qui e ora, non riverbero dell’aldilà. Prova belluina, la va solo se la spacca, non miraggio di pace. Teatro del timore e del tremore. Radura angelica e verminosa di elevazione e schianto, riscatto e dissipazione.

 

Il credo animistico del Giappone antico è rinvenibile nell’espressività di un fallo o di una vulva. Gli organi sessuali, quelli femminili in particolare, erano venerati come oggetti sacri. Si riteneva ospitassero il potere del Buddha e la saggezza enigmatica della dea della pietà (Kuan Yin) attraverso la quale il Buddha si manifesta. Di conseguenza nelle shunga – le stampe erotiche giapponesi (da shun, primavera, e ga, pittura) – il sesso maschile veniva rappresentato in dimensioni abnormi, giganteggiante. Era un eccesso funzionale ai significati profondi veicolati da quelle stampe: una raffigurazione verosimile avrebbe depotenziato l’effetto comunicativo e smussato la forza caricaturale dell’immagine. Grandi artisti si sono misurati con questo filone, in primis Utamaro Kitagawa (1753-1806). Ma l’effervescenza creativa avutasi in Giappone a partire dal IX secolo ebbe fine nel 1873, quando la “rivoluzione imperiale” mise al bando la millenaria arte shunga. L’organo sessuale, da inno di carne alla vita che fiorisce, divenne osceno, tabù. Un tabù che, giuridicamente, ancora opera nel cinema nipponico: l’articolo 175 del codice penale vieta l’esibizione cinematografica di genitali e peli pubici (al naturale, cioè non appannati dalle odiose nuvolette censorie), punendo i trasgressori con pene pecuniarie e detentive fino ai due anni di carcere. Un tabù infranto, un centinaio di anni dopo il bando, da Oshima Nagisa. Sfruttando la “copertura” di una coproduzione francese (la Argos Film) e il sostegno in loco, nelle vesti di direttore di produzione, di Wakamatsu Koji (leggendario cineasta ed ex yakuza), Oshima mostrò, per la prima volta in un film giapponese d’autore, l’unione carnale senza veli. L’anno era il 1975 e il film L’impero dei sensi.

 

Oshima affermò di aver voluto mostrare la graduale santificazione attraverso la passione degli amanti protagonisti, Sada e Kichi, che all’inizio ci vengono presantati come due comuni libertini. Per la via dei sensi, Oshima lavora sul sacro. Un sacro che riconduce alla carne (foss’anche la ferita nel costato del Cristo Flagellato o la vulva da cui sfolgora pietosamente il Buddha) incrostato di terra (perfino della terra nella bocca e negli occhi di un agonizzante), azionando, del sacro, un pensiero e un sentimento che troviamo fluenti (in misure pressioni profondità differenti) nei film dei quindici cineasti trattati nel dossier “Estremoriente”. In ordine di apparizione: Mizoguchi Kenji, Oshima Nagisa, Terayama Shuji, Imamura Shohei, Masumura Yasuzo, Wakamatsu Koji, Matsumoto Toshio, Ishii Teruo, Chang Cheh, Tsukamoto Shin’ya, Tsai Ming-liang, Kim Ki-duk, Miike Takashi, Park Chan-wook, Sono Sion. Se molti di loro possono risultare sconosciuti al grande pubblico italiano, il cinefilo più accorto avrà subito notato una dominante nipponica (undici dei quindici sono i giapponesi) a cui si affianca un rappresentante cinese (Chang), uno taiwanese (Tsai, malese di nascita), due sudcoreani (Kim, Park). Il filo che unisce questi autori è una maniera personale e radicale di filmare l’umano quale terreno di danza e contesa tra Amore e Morte. Emergerà dalla lettura dei saggi uno scenario eterogeneo dove si possono scorgere debiti e crediti, vicinanze e lontananze, filiazioni misconosciute e fratellanze elettive tra i singoli cinecosmi.

 

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rifrazioni

 

 

IMAMURA SHOHEI

THE BEAST IN HEAT

 

Pier Maria Bocchi

 

 

Non è chiaro da subito se il cinema di Imamura Shohei guardi ai terreni selvaggi come sogno o come incubo. Stando a Il profondo desiderio degli dei (1968), nell’isola di Kurage, dove primitivismo e superstizione vanno a braccetto, la sensazione che domina è di libertà non-civile, intesa come non contaminata dalle iperstrutture di un sistema socio-umano geograficamente poco distante (Tokyo) ma comunque lontano anni luce; l’ingegnere della terraferma che giunge in loco alla ricerca di acqua per la raffineria di zucchero disturba i rapporti e inquina gli animi, tanto che alla fine il luogo diventa inevitabilmente meta turistica. Eppure La ballata di Narayama (1983), che del film di quindici anni prima sembra un remake, un reboot, una rielaborazione più oscura, non prevede certo l’elegia per un mondo impavido e selvatico, bestiale e elementare, nel quale si giustiziano i ladri di patate buttandoli legati in un pozzo e i vecchi vanno a morire tra gli dei e i corvi. Le origini per Imamura non sono soltanto e banalmente un’idea per la conoscenza del moderno, un posto da cui attingere per capire l’odierno: gli universi fermi nel tempo di Il profondo desiderio degli dei e La ballata di Narayama non appartengono al passato ma esistono nel presente, paralleli anche se non visti e non sentiti, verosimilmente presenti anche se assenti, vivi anche se sporchi e rozzi e come morti. Quindi per Imamura ci sono due esistenze, due realtà, due differenti gradi di intesa tra uomo e natura; nessuno esclude l’altro, ma anzi uno implica l’altro da sé, ne sottende identità e regole, trucco e strucco, abito e nudità per due diverse espressioni del rapporto fra persona e cose.

 

Non c’è dunque uno scarto di merito temporale e culturale nei film di Imamura, non esiste un’epoca lontana degna di essere ripensata e rivissuta e una contemporaneità peggiore perché industrializzata e in rovina. Nel suo cinema ogni corpo e ogni idea di mondo vivono simmetrici anche quando non in sintonia; ogni attitudine, comportamento, azione vengono giustificate e assolte in sé e nel sé esclusivo, mentre Dio o gli dei stanno a guardare. La civiltà comunemente intesa perde di senso e di valore, per Imamura; a sostituirla è un complesso di segni, costumi e usanze che si autogiustifica con la pratica prolungata, con la tradizione del suo esercizio. Che si tratti allora del disboscamento per la costruzione di una pista per l’atterraggio degli aerei (Il profondo desiderio degli dei) o della sodomia di un cane come unico sfogo per il rifiuto generale (La ballata di Narayama), non c’è vera differenza: sono entrambe manifestazioni di un vivere che rispetta esclusivamente la propria urgenza, e in essa trova la ragione indiscutibile. Progresso e animalesco, dunque, sono facce della stessa medaglia, che Imamura non condanna. Allo stesso modo, egli si guarda bene dal puntare l’indice contro le cosiddette perversioni dell’agire e del pensare umani. Amore e morte, sesso e sangue rappresentano un vocabolario insostituibile, sono termini che s’intrecciano e non si abbandonano, parole crociate che non s’escludono; Imamura, nel frattempo, non osa impedirne o censurarne nessuna, perché sa che metterle al bando significherebbe deprezzarle e quindi motivare le separazioni le classi i gradi le discordie le guerre: «soprattutto amo la sua idea che tutta la vera saggezza giapponese è nel popolo basso che non viene rappresentato, che il vero coraggio è nelle persone condannate dalla società. In questo lo trovo molto commovente, proprio perché non è una presa di posizione politica, ma un’adesione viscerale, un discorso estremamente anarchico, contro tutte le forme di autorità ma anche contro tutti i partiti organizzati» (Paulo Rocha). Nel cinema di Imamura Shohei non esiste dissenso, non ci sono reparti di vita o di società, un padre che si offre con la figlia malata di mente per una parte in un quickie pornografico (Introduzione all’antropologia, 1966) ha lo stesso peso sociale – e, per il regista, la stessa moralità – di una ragazza che con coraggio inaudito rifiuta di cedere al ruolo femminile post-bellico di oggetto sessuale e di servitrice del maschio padrone e colonizzatore, e scandalosamente fa le valigie per abbandonare tutto e tutti recandosi alla stazione ferroviaria (Porci, geishe e marinai, 1961). La bassezza possiede il medesimo diritto d’esistere e di attuarsi della virtù e della bontà, perdendone i connotati etici e diventando, per dirla con Rocha, anarchia e lotta contro il potere costituito. Non c’è critica, non c’è biasimo: il turpe nei film di Imamura non serve a rimarcare il suo contrario, bensì a capire che l’educazione dell’uomo, la sua socialità, è un tratto identificativo come un altro, depurato di ogni morale comune. La sopravvivenza e l’armonia passano anche attraverso l’omicidio, programmato e accettato dalla comunità: il villaggio tra le montagne di La ballata di Narayama campa con poco, e se c’è una bocca da sfamare in più è un problema.

 

 

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rifrazioni

 

 

COMUNITÀ DELLA CARNE E POSSESSIONE MISTICA

AMORE E MORTE NEL CINEMA DI SONO SION

 

Matteo Boscarol

 

 

Ho voluto saturare la visualità di ogni scena

con quanti più dettagli possibile.

Volevo che tutto fosse erotico e sanguinoso.

Sono Sion

 

C’est par la barbaque

la sale barbaque

que l’on exprime.

Antonin Artaud

 

 

La scena iniziale è quella del film che ha reso celebre Sono Sion al pubblico internazionale, Suicide Club. Le giovani studentesse mano nella mano sul ciglio del binario pronte a gettarsi insieme all'arrivo del treno. La purezza delle ragazzine, le loro divise scolastiche e il loro chiacchierare come se niente fosse, gli sguardi felici, sbarazzini ed il fatto che si tengano mano nella mano in un periodo della vita così intenso e difficile stride con il salto mortale che compieranno all'unisono, lo spettatore non è preparato ad un inizio tanto scenografico quanto scioccante. Allo stesso tempo però tutta questa leggerezza e questo amore trova nel suicidio di gruppo e nel successivo profluvio eccessivo di sangue che ne consegue il suo coronamento. Una comunità amorosa, il legame di amicizia che lega le studentesse delle scuole superiori sfiora e lambisce spesso l’amore saffico, che in una società senza speranza trova il proprio senso e la propria celebrazione solo nella comune distruzione della vita, nell’annientamento del corpo vivente e nell’unione finalmente realizzata nello scorrere comune del sangue. Isolato dal contesto narrativo che lo segue, l’inizio del film in pochi secondi ci rivela molto di quelle che sono la poetica e le tematiche che plasmano l’opus cinematografico del regista. Un approccio per certi versi non dissimile da quello del già citato Ishii Teruo, maestro dei b-movie e di quel filone cinematografico dell’ero-guro che fra la fine degli anni Sessanta ed i primi Settanta raggiunge il suo apice con opere quali The Joy of Torture e Horror of The Malformed Man. Questo gusto per l’eccesso e per la mescolanza fra erotismo (anche di bassa lega) e violenza è presente in quasi tutta l'opera di Sono, naturalmente in diverse gradazioni, fin dai primi esperimenti di I Am Sion Sono! (Ore wa Sono Shion da!!, 1985) o nel recente Guitly of Romance (Koi no tsumi, 2011) e che trova la sua massima espressione nel delirante Strange Circus (Kimio na saakasu). I Am Sion Sono! è il cortometraggio girato in 8mm con cui Sono debutta dietro (ma anche davanti) alla macchina da presa, un caotico accumulo di situazioni quasi amatoriali, dove il protagonista è appunto quasi sempre il regista stesso. Anche in un’opera così acerba però, si possono cogliere in fase embrionale molti degli stilemi che caratterizzeranno il proseguio della sua carriera, per il discorso che a noi qui interessa sono da notare particolarmente due scene. Nella prima vediamo Sono in primo piano gridare simulando orgasmi mentre un amico gli taglia i capelli con un rasoio elettrico; in un’altra scena lo vediamo simulare dei rapporti sessuali con delle statue di gesso, ma il sesso simulato delle grida orgasmiche si tramuta subito in urla di dolore dal sapore quasi artaudiano e ancora vedremo le statue e Sono stesso ricoperti di sangue. Sesso come simulazione, attrazione per l’inorganico, amalgatofilia, gioia che si tramuta in dolore ed il rosso del sangue usato in modo quasi espressionista, questo è il percorso che simbolicamente l'autore traccia profeticamente in questa sua opera prima. Una linea estetica che verrà ripresa, sviluppata ed amplificata fino al parossismo in Strange Circus. I primi minuti del film ci fiondano direttamente in quel lago di sangue scarlatto che è il film, siamo in un circo, la grassa drag queen sul palco invita qualcuno fra il pubblico a provare la ghigliottina, si fa avanti una bambina dodicenne ma quando sta per essere giustiziata si sveglia dall’incubo. A questo punto però sente dei gemiti provire dalla camera da letto dei genitori, vi si reca e li scopre durante un rapporto sessuale. Il giorno dopo il padre la chiama nel suo uffico, abusa di lei e dopo alcuni giorni la rinchiude nella custodia di un violoncello dopo aver praticato un buco per permetterle/obbligarla ad assistere ad un altro rapporto sessuale fra lui e la madre. Seguendo la filosofia di uno dei suoi mentori, il regista e teatrante Terayama Shūji, secondo la quale nell'arte non ci dovrebbero essere tabù di alcun tipo, Sono riversa in questa opera tutti gli incubi che animano la parte oscura dell'essere umano. Sesso violento, incesto, pedofilia e un vento malvagio che accarezza tutto il film, si mescolano in questo terribile sogno circolare completamente dominato dal colore rosso. Il sangue che esce dalle ferite e quello mestruale sembra qui fuoriuscire all’esterno e inondare il mondo del film, è l'interno purpureo dei corpi che sono gli esseri umani che si estroietta nella pellicola, un rosso che satura la visione come nella stupenda scena in cui la bambina percorre un corridoio le cui pareti sono completamente ricoperte di sangue. In questo senso l’atto sessuale, e per derivazione anche l'amore, sembra solo un pretesto per far uscire più sangue e più dolore.

 

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