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DOSSIER

LA FABBRICA DEI SOGNI E I SUOI ERETICI

 

INTRO

Katia Rossi

 

Che cosa hanno in comune registi quali Erich von Stroheim, Orson Welles o, per arrivare fino a oggi, Michael Cimino e Terrence Malick? È quanto ci siamo chiesti nel seminario di «Cinema e filosofia» della Scuola Normale Superiore di Pisa, coordinato da Mario Pezzella nell'anno accademico 2010-2011. L'interesse del gruppo si è soffermato su registi considerati “eretici” da Hollywood, che hanno vissuto ai margini della cosiddetta macchina dei sogni hollywoodiana, pagando a caro prezzo tale scelta. La nostra attenzione si è rivolta in particolare a quei film che escono dallo standard spettacolare americano, pur mantenendo viva l'attenzione anche per i grandi successi di Hollywood. La mecca del cinema è stata infatti un topos, luogo d'incontro e crocevia di ogni discorso cinematografico, meta finale del cinema americano certo, ma anche del cinema europeo: Hollywood ha rappresentato una contaminatio tra generi e culture al di là e al di qua dell'Oceano.

La questione di fondo ha una matrice benjaminiana: come è stato plasmato il nostro immaginario collettivo? Perché il lavoro immateriale, di cui il cinema è nella prima metà del secolo scorso la manifestazione forse più importante, non ha prodotto forme di liberazione ma forme di colonizzazione e di sfruttamento delle capacità mentali dell'uomo? Dagli anni '10 fino agli anni '40 del Novecento a Hollywood si costruisce la “fabbrica dei sogni”: film come The Birth of a Nation (D.W. Griffith, USA 1915) o Casablanca (M. Curtiz, USA 1942), fino al più recente Saving Private Ryan (Steven Spielberg, USA 1998) diventano il ricettacolo dei sogni di una nazione, ne costituiscono l'immaginario e lo conservano. Tuttavia, accanto a quest'immaginario per così dire colonizzato, creato attraverso film che dettano canoni narrativi divenuti poi classici (elaborando un codice che è quello che conosciamo ancora oggi), alcuni registi eretici si impegnarono a narrare la realtà, scardinandola dalle fondamenta e offrendo embrionali forme di liberazione. Registi del calibro di Erich von Stroheim con Greed (USA 1924), Orson Welles con Citizen Kane (USA 1941), Michael Cimino con Heaven's Gate (USA 1980) e infine Terrence Malick con The Thin Red Line (USA 1998) scardinarono anzitutto il codice narrativo imposto da Hollywood. È stata questa, forse, la loro eresia più grande.

Siamo appena all'inizio di un lavoro che si propone di continuare dando un respiro ancora più ampio al progetto, ma l'impostazione ci sembra avere in serbo molte sorprese.

 

 

STORIA DI UN’INSORGENZA

I CANCELLI DEL CIELO DI MICHAEL CIMINO

 

Mario Pezzella

 

Nel cinema americano classico la “nascita della nazione” – da Griffith in poi – è stata narrata seguendo lo schema del montaggio organico descritto da Deleuze [1] : una comunità armonica immediata è frantumata dallo scontro col negativo e con l’Altro, portatore del male, poi si reincardina nella Legge e nello Stato, superando il disordine e la divisione, dando vita a una forma superiore di unione. I cancelli del cielo vanno in direzione opposta, studiano piuttosto la “nascita di una scissione”, fondamento e caratteristica dell’ordine costituito, e insieme crepa latente nella sua compattezza. Lo Stato non nasce dalla pace e dal diritto, ma da una violenza costituente e dalla dissimmetria dello sfruttamento e del dominio. Lo stereotipo positivo della Grande Nazione – presente in modo continuativo da Griffith fino a Salvate il soldato Ryan di Spielberg – è stato sabotato da Cimino con tale radicalità da rendere il film indigeribile allo star system, e distruggere la carriera del regista, come prima era accaduto solo a Stroheim e Welles.

Lo stile filmico è in tutto conseguente all’intenzione dell’autore, il montaggio organico e il suo ritmo alternato sono relegati al margine, mentre Cimino procede con larghe e complesse strutture circolari, specificandone ogni volta il significato, contraendole verso il centro o disperdendole verso l’esterno, facendone simbolo di unità o preannuncio di divisione. Il tempo convergente e lineare del montaggio organico viene sconnesso in ripetizioni, arresti, arabeschi danzati [2] .

Il giro di valzer entusiasta e vibrante della prima parte del film esprime sia la speranza, che sembra sfiorare con le sue ali la fronte dei giovani destinati a regnare sul grande paese e a costruire, educare la democrazia; sia un Eros che esalta con passioni visibili e potenti gli amici e gli amanti che partecipano al ballo, e li affida – sembra – a una gioia senza fine; sia la fede che tutto ciò si realizzi in una forma perfetta, animante e rigorosa come le figure di un pas de dance. Ma un sordo rumore e furore già minacciano il cristallo splendente della giovinezza: come intendere altrimenti la disordinata ubriachezza, la lotta scomposta, l’animalesco tumulto che si producono nella corsa all’albero della cuccagna, per conquistare la ghirlanda della festa? Qui il circolo gioioso letteralmente si dirompe, lo vediamo sfaldarsi nel caos, presagendo che l’incantata apparenza va a spegnersi: e quelle ali di speranza nessuno veramente le ha viste e l’occasione – che era grande – è perduta.

[…]

 

DESTRUTTURARE GAUDALCANAL

THE THIN RED LINE DI TERRENCE MALICK

 

Paolo Segalini

 

Per privilegio d’anagrafe, dopo uno iato ventennale, il terzo lungometraggio di Terrence Malick si ritrovò a dividere le sale con il Salvate il soldato Ryan di Spielberg, stuzzicando la critica a un facile e potenzialmente fuorviante paragone tra l’araldo delle major e l’autore più nascosto e venerato di tutta la New Hollywood. [3] L’ironica sincronia ha inevitabilmente ammantato di significati ulteriori il confronto estetico e, sebbene sia improprio condurre una disanima incrociata tra due film che narrano fronti geograficamente opposti, non sarà un esercizio ozioso considerare La sottile linea rossa un esponente eterodosso e finale del war film e in tal senso proporre qualche osservazione. [4] A siffatto approccio si potrebbe obiettare che, adattando il romanzo di James Jones, Malick si trovi automaticamente di fronte alle situazioni convenzionali del genere, senza di fatto costruire intenzionalmente un rapporto con un parente acquisito e non frequentato. Tuttavia ritengo che la coscienza del regista della collocazione della propria pellicola all’interno di un genere definito non possa che risaltare dalle profonde variazioni messe in opera, che siano ribaltamenti, elusioni o distorsioni dei suoi elementi convenzionali. [5]

 

Il primo e più ovvio confronto con il war film è costituito dalle modalità di rappresentazione del gruppo di soldati che affrontano la battaglia di Guadalcanal. Rifuggendo dalla classica rappresentazione del drappello di soldati guidati da una figura eroica, la compagnia Charlie non è presentata come una riconoscibile gerarchia di protagonisti, ma come massa di uomini poco differenziata da cui emerge una serie di personaggi; non di rado alcuni soldati partecipano alla vicenda solo per lo spazio di poche scene. [6]

[…]



[1] Cfr. G. Deleuze, Cinema 2: L’immagine-tempo (1989), Ubulibri, Milano 2004.

[2] Stile più simile a quello “francese” ritmico di un Renoir o di un Grémillon, che a quello dei maestri del western classico.

[3] Per un efficace panoramica sulla ricezione del film si rimanda a M. Flanagan, “Everything a Lie”: the Critical and Commercial Reception of Terrence Malick’s The Thin Red Line, in Aa.Vv., The Cinema of Terrence Malick. Poetic Visions of America, Wallflower Press, Londra 2007, pp. 125-140; R. Silberman, Terrence Malick, Landscape and “What Is this War in the Heart of Nature?”, in Aa.Vv., The Cinema of Terrence Malick, cit., pp. 164-178 e L. Michaels, Terrence Malick, University of Illinois Press, Chicago 2009, pp. 56-63.

[4] Per amor di brevità, col termine war film mi riferirò al filone sulla Seconda Guerra. Mondiale. Per un’esaustiva disanima del genere, J. Basinger, The World War II Combat Film. Anatomy of a Genre, Wesleyan University Press, Middletown 2003.

[5] Sull’appartenenza al genere war film si veda la breve ed efficace scheda in J. Basinger, cit., p. 336 e F. Cattaneo, Terrence Malick. Mitografie della modernità, Ets, Bergamo 2006, pp. 160-164; sulla distinzione col Vietnam movie in relazione a The Thin Red Line, A. Fornasiero, Terrence Malick. Cinema tra classicità e modernità, Le Mani, Genova 2007, pp. 215-216.

[6] «[…] il film destruttura lo statuto del protagonista, che non solo viene declinato al plurale, ma privato della sua costitutiva preminenza: non protagonisti, allora, ma personaggi», da F. Cattaneo, cit., p. 146.

 

 
 

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