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DUMAS

 

ABOUT COVER

MARLENE DUMAS

 

 

LA PITTRICE DEL MALE

 

Jonny Costantino

 

 

Marlene Dumas restituisce alla figura una freschezza smarrita dall’arte contemporanea. Ha visto tutto quello che c’era da vedere, non smette di assimilare le lezioni di chiunque abbia qualcosa da insegnarle, eppure dipinge con la scioltezza del primo pittore. No, non il primo apparso sulla terra, non colui che ritrae sulle pareti della caverna le belve pronte a sbranarlo, che è costretto a uccidere per sopravvivere, che incide la roccia per studiarsi la silhouette del nemico, assorbirne magicamente la forza, esorcizzare la paura, prepararsi alla lotta. Bensì il primo pittore consapevole del proprio gesto creativo e dell’oscurità in cui s’è avventurato, l’oscurità di un disastro dove però non ha perso, dell’avo paleolitico, il senso del pericolo e del combattimento, il tremore e il desiderio, il coraggio e la crudeltà, la commozione e lo stupore, la fame.

 

I corpi di Marlene Dumas affiorano dall’oscurità, un’oscurità da cui non si sono emancipati. Sono lucciole inchiodate alla notte del didentro. La parte che non vediamo, il loro retro, è molle, si decompone nella tenebra. Ma forse più che lucciole, creaturine dal brillio intermittente, questi corpi sono zecche che succhiano il sangue dell’abisso dove sono per metà affondate. Zecche temerarie, turgide, di un’opalescenza che non subisce attenuazioni d’intensità. O forse più che zecche, le quali hanno pur sempre una vita propria, sebbene parassitaria, questi corpi sono escrescenze dirette dell’oscurità, croste di una ferita che non si rimargina. A staccarle, sarebbe tutta un’iridescenza filamentosa.

 

Qui, lo strato più esterno dell’oscurità è reso più nero, per contrasto, dall’alta temperatura dei corpi. Il calore, in pittura, è questione di colore, come nel cinema è questione di luce. Il colore, nei quadri di Marlene Dumas, cola e irradia. Cola perché la vita è liquida, perché il desiderio è liquido. Irradia perché non può farne a meno, come tutto ciò che non si lascia spegnere anzitempo. Il colore, qui, è la bava della luce al contatto con la notte.

 

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  dumas

 

 

FILM LIST

 

Marlene Dumas

 

I film sono da sempre un’importante fonte d’ispirazione per il mio lavoro, sebbene la loro diretta influenza potrebbe apparire non evidente. Da ragazzina, c’erano quelli che davano allo Sky View, il drive-in vicino alla nostra fattoria a Kuilsrivier, in Sudafrica. Spesso il sabato cercavo di convincere mio padre a portarci (me, mia madre e i miei due fratelli). Ricordo che la maggior parte delle volte mio padre si addormentava durante la visione (non dimenticava mai di portarsi il suo vino in macchina), mentre noi mangiavamo gli hamburger e bevevamo i milkshake che vendevano al drive-in. Le pellicole non erano granché. Erano soprattutto film hollywoodiani, western o Tarzan movie. C’erano i buoni contro i cattivi e avevano finali chiari.

 

Tra il 1972 e il 1975 ho studiato all’accademia di belle arti Michaelis presso l’Università di Cape Town. Lì vidi film che non compresi subito, ma che hanno cambiato il mio modo di intendere l’arte del racconto cinematografico. Anche il mix tra finzione e realtà nel film rappresentava una novità. È stato allora che ho visto il mio primo Bergman, il mio primo Antonioni…

 

Ecco una lista con alcuni dei titoli per me più significativi.

 

1. Hiroshima mon amour (1959, di Alain Resnais, con Emmanuelle Riva e Eiji Okada). La poetica sceneggiatura è di Marguerite Duras. Una breve ma intensa storia d’amore. Il nome di lei non viene mai detto durante il film. Due amanti, un’attrice francese e un architetto giapponese, filmati nella loro intimità amorosa, parlano di ricordi e di oblio, della bomba su Hiroshima e della Seconda Guerra Mondiale… Ho usato un frame del film per un mio collage del 1981, Tenderness and the Third Person, e nel 2008 ho realizzato un dipinto intitolato Hiroshima mon amour. Di grande rilievo anche un altro film di Resnais: L’anno scorso a Marienbad (L’année denière à Marienbad, 1961), specialmente il finale.

 

2. La donna di sabbia (Suna no onna, 1964, di Hiroshi Teshigahara, con Eiji Okada e Kyôko Kishida). Non tanto una storia d’amore quanto una strana e tesa relazione dove un uomo (uno scienziato), finito in una fossa nella sabbia, diventa il marito della donna che dentro ci vive e che appartiene a una tribù che lui non conosce. A tratti il film si fa aggressivamente erotico. L’uomo cerca per tutto il tempo di tornare alla propria vita normale, ma la sabbia lo trattiene risucchiandolo.

 

3. La battaglia di Algeri (1966, di Gillo Pontecorvo). Pontecorvo mette insieme un cast fatto da attori algerini non professionisti, scelti soprattutto in base all’aspetto fisico e alla capacità di trasmettere emozioni (ragion per cui molti di loro sono stati doppiati). L’unico professionista è Jean Martin, nei panni del colonnello Mathieu. Parecchi anni prima, Martin era stato licenziato dal Théâtre National Populaire per aver firmato il “Manifesto dei 121” contro la guerra in Algeria. Questo film l’ho visto in Olanda molti anni dopo la sua uscita, dopo aver realizzato nel 2001 il dipinto The Woman of Algiers. È film importante anche in riferimento alla nostra (apparentemente recente) storia di “terrorismo” e al senso dei bombardamenti-suicidii.

 

 

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