POETICHE
Il paradosso della libertà
- su Jan Švankmajer -
di Valentina Castellani
Jan
Švankmajer occupa un ruolo di primo piano nel panorama del cinema
d’animazione attuale e a ragione: con una produzione, fino a questo momento, di
ventisette cortometraggi e cinque lungometraggi – attualmente sta
lavorando a Surviving Life (Přežít svůj život) che uscirà,
sembra, nel 2010 – la sua opera dispiega una ricchezza e una profondità
rare nel mondo del cinema animato e non solo, essendo la sua una figura
artistica a tutto tondo: la sua produzione comprende film ma anche dipinti,
collages, sculture, ceramiche, acqueforti, opere tattili, poesie e scritti. La
complessità e la sorprendente varietà della sua opera, sia a livello formale
che di contenuto, rendono difficile poterlo classificare in un ambito ben preciso, tenendo conto
anche del fatto che spesso in un’unica sua opera s’intrecciano più forme
d’espressione artistica, come nel caso delle produzioni cinematografiche in cui
convivono riprese dal vivo, animazione di disegni, dipinti e figure
tridimensionali, collages e sculture.
Nato
a Praga nel 1934, Švankmajer ha iniziato a girare film a trent’anni e nel
1970 è ufficialmente entrato tra le fila del Gruppo Surrealista boemo,
divenendone oggi uno dei massimi promotori. Nonostante gli oltre quaranta anni
di attività artistica, la sua opera è sconosciuta ai più: le vicissitudini
storiche e politiche del suo Paese natale e gli effetti della Cortina di Ferro
hanno reso impossibile, o perlomeno molto difficoltosa (e a lungo illegale), la
circolazione delle sue opere non solo all’estero ma nella stessa
ex-Cecoslovacchia; molte delle sue creazioni sono state censurate ed è stato
addirittura interdetto dal girare film per ben sette anni, dal 1972 al 1979,
periodo che ha speso nell’approfondimento di altri campi artistici. È solo nel
1983 che, grazie alla retrospettiva organizzatagli durante il Festival
d’animazione di Annecy, quella di Švankmajer è divenuta una figura di
respiro internazionale: lo stesso regista ha ammesso in svariate occasioni che
i suoi film hanno dovuto attendere venti anni prima di trovare un proprio
pubblico.
Fatto
del tutto eccezionale, l’ultimo film di Švankmajer, Lunacy (Sílení, 2006, 118’), acclamato da molti critici cinematografici
come il suo capolavoro e vincitore del Leone d’Oro ceco nel 2006, si apre con
un prologo dello stesso regista che, vestito in modo casual e in piedi di
fronte alla macchina, su uno sfondo bianco, si rivolge allo spettatore con
queste parole:
Signore
e signori, quello che state per vedere è un film dell’orrore – con tutte
le degenerazioni caratteristiche di questo genere. Non è un’opera d’arte. Oggi,
l’arte è qualsiasi cosa ma è comunque morta. Al suo posto c’è una specie di
scia del riflesso del volto di Narciso. Il nostro film può essere considerato
un tributo infantile a Edgar Allan Poe, dal quale ho preso in prestito numerosi
spunti. E al Marchese de Sade, al quale il film deve la sua blasfemia e la sua
sovversione.
L’argomento
del film è essenzialmente una disputa ideologica su come condurre un manicomio.
Di base, ci sono due modi per dirigere un istituto del genere – entrambi
ugualmente estremi. Uno incoraggia la libertà assoluta. L’altro, il metodo
vecchio stile e ben testato del controllo e della punizione. Ma c’è anche un
terzo modo che combina ed esaspera gli aspetti peggiori degli altri due. E
questo è il manicomio nel quale oggi viviamo.
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